Thread Forum:
Karol Goodwin
Editoriale
Edizione 90
03.12.2021
Karol Goodwin: the real “American Fashion Lexicon”

Come nel filo conduttore che collega i vari interventi in una conversazione online, il progetto Thread Forum, curato da Antonio Mancinelli, è una ricognizione sul ruolo della maglieria nell’estetica contemporanea. Grazie a una serie di interviste ai più noti knitwear designer del mondo selezionati tra coloro che intervengono a Pitti Filati, intende anche dare risposte agli interrogativi che spesso si pongono retailer e acquirenti, ma a cui non si trovano facili risposte: dialoghi sul “qui” e “ora” di una materia che fa parte da sempre della cultura del vestire.

Solo menswear per Karol Goodwin, Senior Designer di Flint and Tinder. È la linea interna e la più prestigiosa di proprietà dell’azienda Huckberry: si utilizzano i migliori tessuti e filati sul mercato «non solo per fornire capi durevoli e a prova di intemperie, ma anche per raccontare la storia più autentica e genuina del nostro Paese. Puntiamo a riprogettare, stagione dopo stagione, i capisaldi dell’American Way of Life legati soprattutto alla vita all’aria aperta, che punta a ridisegnare, stagione dopo stagione, gli elementi essenziali dell’American Way of Dressing quando si parla di abbigliamento maschile», avverte la giovane stilista. Vive e lavora ad Austin, Texas, sede anche della Huckberry. «E malgrado io sia capo di un team dove disegniamo tutto, il mio affetto va ai tessuti in maglia, perché con quelli si realizzano i capi più vicini al corpo, lo esaltano e lo proteggono».
Come ha iniziato?

«Non avevo il sacro fuoco dello stilista com’è narrato da certe modalità leggendarie: ho iniziato l’università per studiare biologia, che ovviamente non ho mai finito. Ma mia nonna, che designava abiti, mi ha spinto a frequentare una scuola di moda. Ciò ha fatto crescere in me il desiderio prima, di coltivare il design dei costumi di scena, – forse è per questo che Flint and Tinder mi ha scelto? – e poi passare alla moda vera e propria. Ma rimango sempre interessata alla scienza e ritengo che i filati siano, anche dal punto di vista tecnologico, un ottimo argomento di studio. Spesso mi ritrovo a parlare con mia madre, che è una scienziata vera, a trovare i pro e i contro di una determinata fibra e delle sue performance da potere applicare nel mio lavoro».

Questo approccio tra creatività e razionalità, l’ha mai portata a ragionare sull’impatto che la moda ha sull’ambiente?

«Certamente. E non credo a chi dice “non possiamo fare nulla se non produrre meno”. Certo, la durevolezza dei capi è un requisito fondamentale, ma questa dote da sempre fa parte del Dna di Flint and Tinder. Per questo sono anni che stiamo lavorando con filati riciclati spesso in mischia con altri nuovi o artificiali, e a Pitti Filati abbiamo trovato sempre ottimi risultati di nuove sperimentazioni. Credo che scienza e fantasia siano destinate a essere, in futuro, sempre più connesse. Del resto, ci sono così tante declinazioni della parola “sostenibilità” che penso sia un dovere morale ed etico, prima che estetico, di provare a cercare tutte le soluzioni».

 
Lei crede che anche per un brand così volutamente “tradizionale” nella sua narrazione, gli uomini abbiano cambiato il loro rapporto con la maglieria?

«Sicuramente. Per esempio, sono più aperti, per l’appunto, a nuovi blend di materie, ma anche coltivando una nuova passione per il colore. Come vede, anche qui si tratta di due desideri paralleli, uno più legato all’spetto pratico, l’altro alle emozioni. Ed è aumentato anche la competenza dei materiali, per cui adesso la mia principale preoccupazione è salvaguardare la qualità».

La selezione delle fibre influisce sulla sua creatività?

«Di sicuro: è fondamentale nel rinnovare i colori e i punti da scegliere per la collezione successiva.


 
Quali sono le capacità che deve avere un bravo designer di maglieria?

«Non avere paura di mixare l’estro con le informazioni tecniche: per esempio, ho studiato per moltissimi anni la grandezza degli aghi, il funzionamento delle macchine, la resa dei cartamodelli una volta che deve essere tradotti in maglieria. Voler capire apre la mente anche all’invenzione espressiva.
 
Com’è stato lavorare durante la pandemia: ha ostacolato o no il suo lavoro?

«È stato un evento così epocale che ha portato tutti noi che lavoriamo nella moda a ripensare produzione, quantità, velocità. Però devo anche ammettere che, poiché andavo in fabbrica anche durante il lockdown, ha creato con tutti i miei i collaboratori – alcuni da remoto, altri in presenza – uno spirito di gruppo che mi piacerebbe restasse per sempre. Proprio per arrivare tutti insieme a una maggiore consapevolezza del valore e delle conseguenze di ciò che facciamo».

 
Che cosa le è mancato di più, in quel periodo drammatico?

«(Ride)… Non poter andare in giro per mercatini dell’usato. Per me è un rito, è una fonte d’ispirazione, una possibilità di riscoprire il patrimonio americano in fatto di abbigliamento. Per me il vintage è come una miniera d’oro d’idee. Ma poi cerco di realizzarli con i filati più tecnici e inediti che trovo nelle fiere più innovative».